#EnivsReport

#EnivsReport e la differenza fra comunicazione ed informazione.


Ad una settimana dal caso #EnivsReport (per chi se lo fosse perso, qui trovate lo Storify di Roberto Favini), ho provato a tirare le somme sul dibattito che si è generato online sul tema. Grazie alla collaborazione degli amici di TalkWalker, ho effettuato una misurazione delle conversazioni su Twitter intorno all’hashtag #EnivsReport, specificatamente in quest’ultima settimana, con l’obiettivo di farmi un’idea approssimativa della portata e delle dimensioni del dibattito ad una settimana dalla puntata di Report su Eni.

A differenza delle analisi già effettuate, inizialmente da Pierluigi Vitale su Social Listening, e successivamente da The Fool (di quest’ultima Matteo Flora ne ha parlato approfonditamente in un suo post su CheFuturo!), mi sono concentrato sulla coda lunga delle conversazioni durante questa settimana, e quindi non strettamente su quelle d’impulso generate nei giorni immediatamente successivi alla diretta televisiva. Inoltre ho ristretto la misurazione al solo hashtag #EnivsReport, in modo da estrapolare le sole conversazioni più strettamente collegate al dibattito, e non parzialmente a solo uno dei due soggetti coinvolti.

#EnivsReport - Tweets dal 14/12/2015 al 20/12/2015
#EnivsReport – Tweets dal 14/12/2015 al 20/12/2015
#EnivsReport - Reach potenziale
#EnivsReport – Reach potenziale

Quello che emerge evidente è un primo picco iniziale nelle conversazioni, a seguito delle attività di Eni su Twitter (di cui abbiamo già abbondantemente parlato qui), e una serie di rimbalzi durante la settimana. Il numero di tweet complessivo settimanale, intorno all’hashtag #EnivsReport, è relativamente basso (poco più di 2.000 tweet in una settimana), ma con un reach potenziale molto elevato (circa 14 milioni di italiani). Oltre il 66% di questi utenti sono uomini, e solo il 33% circa sono donne.

#EnivsReport - Partecipazione alla conversazioni per sesso
#EnivsReport – Partecipazione alla conversazioni per sesso

Va ribadito come questi numeri si riferiscano alle sole conversazioni con hashtag #EnivsReport e non al complesso delle conversazioni social sul tema (che solo per Twitter si assesterebbero almeno intorno a 6.000 tweet circa, ma questo dato è più difficile da determinare con esattezza). In ogni caso, è facile ipotizzare come il reach complessivo potrebbe essere decisamente più alto.

I tweet sono distribuiti geograficamente in tutto il mondo, con una concentrazione sull’Europa e in particolare sull’Italia (seguono Francia, Stati Uniti e Inghilterra). La lingua più usata nei tweet è l’italiano (oltre il 90%), il restante è principalmente anglofono.

#EnivsReport - Distribuzione geografica tweets
#EnivsReport – Distribuzione geografica tweets

La sentiment analysis del dibattito ha evidenziato che il 67% circa delle conversazioni sul tema ha carattere neutro, e solo il 23% circa ha matrice negativa (e che è in crescita da metà di questa settimana). Più difficile è determinare se tale matrice negativa si riferisca a Report o ad Eni.

#EnivsReport - Sentiment Tweets dal 14/12/2015 al 20/12/2015
#EnivsReport – Sentiment Tweets dal 14/12/2015 al 20/12/2015

Ma il dato più significativo è come la maggior parte delle conversazioni sui social si siano concentrate ad oggi solo sul “metodo” (cioè su come è stato veicolato il messaggio di Eni), e come invece pochissime di queste si sono soffermate sul “merito” (cioè su cosa ha detto Report e cosa ha risposto Eni; NdR: a tal proposito consiglio di leggere il post di Mario Tedeschini Lalli). E’ infatti evidente come gran parte dei contributi online sul caso #EnivsReport vertano sugli aspetti di comunicazione, in cui sicuramente Eni si è distinta, più che su quelli di informazione, che quantomeno ci aspettava emergessero attraverso i servizi di Report, o quantomeno dal mondo dell’informazione organizzata.

Per quanto sia comprensibile registrare l’entusiasmo, da parte degli operatori di comunicazione, per la scelta di Eni di rompere definitivamente la barriera degli uffici stampa ed entrare in una conversazione punto-punto, appare altrettanto incomprensibile la rassegnata scelta del giornalismo nostrano di non presidiare l’informazione online con opportune azioni di fact checking e debunking, soprattutto con il fine di verificare chi, fra Eni e Report, abbia detto realmente la verità.  A tal proposito è intervenuta già nei giorni scorsi anche Arianna Ciccone, co-fondatrice dell’International Journalism Festival e di Valigia Blu, con un suo post su Facebook, in cui ha anche provato pubblicamente a chiedere un chiarimento diretto ad Eni:

Vista la complessità dell’argomento e la diversità delle posizioni lette online in questi giorni, ho raccolto una serie di contributi ed opinioni di professionisti del mondo della comunicazione e dell’informazione, con il fine di aprire un dibattito pubblico, aperto e sereno sul tema.

Franz Russo
Franz Russo

“In casi come questo è ovvio che l’attenzione si concentra più sui numeri e sui dati, quindi molto sul metodo, e meno sull’informazione. Un caso che serve a far riflettere anche perché se è vero che quello di domenica scorsa avrà certamente delle ripercussioni in ambito comunicazione aziendale, è anche vero che lo stesso caso ha dimostrato quanto il mondo dell’informazione fosse in grave ritardo. Pochi si sono interessati alla sostanza dell’argomento, gli stessi giornalisti hanno dato grande rilevanza al caso in sé senza mai fare un approfondimento sulla sostanza. Il caso #EnivsReport dovrà quindi essere da stimolo per il mondo dell’informazione che dovrà dimostrarsi in grado di intercettare situazioni simili, ma allo stesso tempo essere in grado di approfondirle.” Leggi anche il post di Franz Russo, il primo ad aver usato l’hashtag #EnivsReport.

Federico Ferrazza
Federico Ferrazza
Direttore di Wired Italia

“Ho visto, con un po’ di sorpresa, il grande entusiasmo che ha suscitato in alcuni giornalisti la mossa di Eni di rispondere a Report via Twitter. Per carità anche io ho apprezzato la strategia di comunicazione. Ma è evidente che non è questa la strada verso l’informazione e la verità: se vogliamo sapere qualcosa su un’azienda, l’unica fonte non può essere quella azienda. Quindi bravo lo staff di Eni a scegliere una tattica originale ma soprattutto a spostare l’attenzione. In questi giorni si è infatti parlato solamente della comunicazione e non del merito delle questioni. D’ora in poi Report dovrà considerare reazioni di questo tipo di chi vuole legittimamente difendersi. Perché una delle domande che in pochi si sono fatti è: perché Eni ha deciso di non rispondere a delle domande che sicuramente le erano state inviate visto che si era potuta preparare le risposte? Voleva nascondersi o non si fidava? Io penso che l’unico modo per avere sempre un contraddittorio è, come ha suggerito la stessa Eni, fare interviste in diretta per eliminare le opacità che nascono quando un colloquio è montato, con domande o risposte che scompaiono”

Stefano Chiarazzo
Stefano Chiarazzo
Communications Manager

“Prima di Eni altre aziende come Moncler e Gucci erano finite sotto il microscopio di Report (NdR: nella ricostruzione di Giuseppe Granieri viene spiegato bene “Il Metodo Report”). Entrambe avevano reagito attraverso gli uffici stampa, pronti a produrre prove che sgretolassero la tesi del programma. Eni ha scelto per prima di operare d’anticipo, preparando a tavolino un’efficace azione di real time crisis management a difesa della propria reputazione. Tale scelta, proprio perché inedita, ha avuto l’effetto di spostare l’attenzione degli opinion leader e dei media dai contenuti allo strumento. Difficilmente altri casi in futuro otterranno tanta visibilità ma la strada è aperta: da qui in avanti sta alle aziende decidere se e quanto rendere la vita difficile alle trasmissioni di inchiesta.” Leggi anche il post di Stefano Chiarazzo sul suo blog.

Gianluca Comin
Gianluca Comin

“L’ottimo lavoro fatto da Eni è solo il primo passo di un percorso ancora lungo, ma va presa coscienza che la comunicazione digitale e in particolar modo i social consentono di fare informazione alternativa sulla quale far passare contenuti aziendali. Certo tra il milione e mezzo di spettatori di Report e le decine di migliaia di follower di Twitter c’è uno zero di differenza. Ma in termini di comunicazione, l’azione di Bardazzi e colleghi è stata, prima ancora che controinformazione, un ottima azione di spin. Sono giorni che parliamo della comunicazione e non dei contenuti e questo è un indubbio successo per Eni. Quanto ai contenuti di comunicazione forse in futuro vanno tagliati meglio sul pubblico dei social e l’azione non può fermarsi al giorno della trasmissione”. Leggi anche l’articolo di Gianluca Comin su Lettera43.

Alex Giordano
Alex Giordano
Direttore Centro Studi Etnografia Digitale

“Non entro nei meriti della faccenda nigeriana che coinvolge Eni, perché non la conosco, né tantomeno sono un entusiasta tout court della Rete, proprio perché ormai sappiamo tutti bene che, aldilà di ogni fanatismo che vuole la Rete come uno spazio veritiero, è invece facile e possibile, per chi lo sa fare, alzare polveroni e dirottare attenzione a proprio piacimento (NdR: a tal proposito consiglio di leggere il post di Alessandra Borella su Articolo21). Quello che invece mi piace osservare di questa faccenda è una riprova che la contemporaneità iperconnessa ai tempi dell’infosfera ci impone di rivedere i concetti di Spazio e di Tempo. Infatti è proprio sulla risignificazione del concetto di Tempo che si gioca la partita tra un “Polifemo” stanco (NdR: la televisione), rappresentato da Report che è forte in un ottica di tempo lineare, cronologico, che si fa forte nelle dinamiche del “palinsesto”,  contro un “Ulisse” (NdR: i social media) fatto dal team comunicazione dell’Eni, più  smart, capace di muoversi agilmente nelle dinamiche fluide, puntiformi, del tempo liquido che vede insieme la possibilità di agire nel “tempo reale” dello stream di Twitter. Capacità che gli fa godere di tutti i benefici delle caratteristiche di persistenza, scalabilità, ricercabilità dei contenuti immessi in Rete.”

Luca La Mesa
Luca La Mesa
Social Media Strategist

“La Rete legge e commenta ma spesso non ha né tempo né competenza specifica per entrare nel merito dei contenuti. Io per primo ho avuto difficoltà a comprendere nello specifico la versione dei fatti ma sono rimasto molto positivamente dalla “novità di metodo”.  Per la prima volta un’azienda ha dimostrato di poter alzare l’asticella creando un importante precedente in ambito di challenge nei confronti del media che è maggiormente capace di raggiungere le masse. Alcune delle strategie di maggior successo si sono dimostrate proprio quelle che hanno visto utilizzare i new media (social media) per finire sugli old media (TV, giornali, radio ecc..). Quando questo avviene, aumenta moltissimo la visibilità dell’azienda stessa, e in casi complicati come questo, genera un grosso vantaggio perché sposta il focus sulla “novità” prima ancora che sul “contenuto” del dibattito. Adesso il dubbio sarà se verranno percepite maggiormente “colpevoli” le società che saranno soggette delle prossime indagini di programmi di inchiesta se non saranno in grado, anche per motivi economici ed organizzativi, di fare una contro inchiesta in diretta come fatto dal team di Eni.”

Futura Pagano
Futura Pagano
Digital Strategist

“La reazione a cui abbiamo assistito dopo con il caso #EnivsReport sembra essere “molto italiana” (citazione colta). Molti, soprattutto tra gli addetti al settore digitale, hanno gridato al miracolo, al caso comunicativo dell’anno. Io ho visto da parte di Eni l’ottima esecuzione di un buon piano architettato a tavolino e pianificato nei minimi dettagli, utile a far sentire la voce dell’azienda (ma non a generare contraddittorio, anzi, forse proprio ad evitarlo). In generale l’hype da “caso del secolo” è stato talmente alto, da rendere quasi impossibile un confronto pacato e analitico sui fatti e sulla vicenda, senza cadere in confusione tra strategia comunicativa di brand e fatti giornalistici. Della vicenda mi rimane comunque un quesito: può essere un precedente questo per poter dire che chiunque faccia giornalismo di inchiesta oggi debba saperlo fare (e come poi?) imprescindibilmente anche usando i social media? E possiamo permetterci di considerare questa una condizione necessaria per giudicare cos’è buon giornalismo e cattivo giornalismo, o giornalismo fatto male? E, soprattutto, come si fa giornalismo – e non azioni di ufficio stampa digitale, come sembra essere quella di Eni – con i social media?”

Matteo Pogliani
Matteo Pogliani
Digital Strategist

“Eni non ha fatto rivoluzioni, ma ha dimostrato cosa significa utilizzare al meglio i social e quali potenzialità possano avere. Non si parla nemmeno di gestione della crisi, secondo me (sapevano da tempo i contenuti della puntata di Report) ma di una perfetta pianificazione su un progetto di comunicazione. In generale non stupiamoci di nulla, e non caschiamo nel “ha vinto quello o questo” (NdR: come scriveva anche Massimo Mantellini nel suo post): Report è un esempio di giornalismo, cioè informare; Eni è un esempio di comunicazione d’impresa, cioè come veicolare contenuti che parlino al meglio del brand.”

Emanuela Zaccone
Emanuela Zaccone
Co-founder TOK.tv

“E’ fondamentale a mio avviso non confondere le due cose: comunicazione ed informazione. Abbiamo davanti agli occhi (e nelle nostre mani, grazie ai nostri device) la possibilità di essere parte di un dialogo. Quest’ultimo però crea valore solo se non si ferma ad un mero scambio ma diventa occasione per approfondire, supportato anche da chi invece di limitarsi a creare notizie dai tweet ne vada a verificare il contenuto, le faccia diventare inchieste nelle inchieste contribuendo a costruire non solo una cultura dello scambio ma della verifica.” Leggi anche l’articolo di Emanuela Zaccone su Wired.

Fabrizio Goria
Fabrizio Goria

“Non voglio entrare nel merito della questione Eni – Report, perché non ne ho le competenze per farlo. Tuttavia, mi limito a osservare cosa è successo su Twitter. Così come qualche anno fa ci fu la rivoluzione del customer care via Twitter, che funziona molto bene negli USA e molto meno bene in Italia, nel nostro Paese c’è stata la rivoluzione della brand reputation difesa su questo social media. Sarà molto stimolante per tutti, aziende e giornalisti, se si continuerà su questa strada.”

Simone Cosimi
Simone Cosimi
Giornalista freelance, collaboratore de La Repubblica

“Sono stupito che si sia arrivati così tardi, a questa presunta rivoluzione nella dialettica comunicativa. In fondo Eni non ha fatto altro che organizzare una contraerea puntuale via Twitter, con l’obiettivo – secondo me non secondario – di tenere nascosti i contenuti reali proprio mostrandoli. Senza timore di esporre il proprio punto di vista. Il punto è però un altro: a me, in quanto giornalista, non interessano troppo le risposte aziendali prodotte scegliendo da sé le regole e con tutto il tempo che occorre. Rimango convinto, con tutta la comprensione per chi ritiene Report una macchina da giornalismo a tesi (argomento che nel complesso non condivido) che un programma (come una testata) abbiamo il diritto e il dovere di scegliere le proprie regole. A chi si sottrae rimane ovviamente a disposizione ogni strategia contronarrativa possibile. Ma sempre ricordandoci che siamo nettamente fuori dal giornalismo in cui qualcuno fa una domanda e qualcun altro fornisce una risposta. Insomma, abbiamo parlato poco dei contenuti perché ci siamo resi conto che eravamo fuori dal ring giornalistico.” Leggi anche l’articolo di Simone Cosimi su La Repubblica.

Salvatore Russo
Salvatore Russo
Digital Strategist

“Su questa storia ho letto un po’ di tutto. Partiamo dal presupposto che Eni sapeva ovviamente della trasmissione ed ha avuto tutto il tempo necessario per preparare una strategia di comunicazione per rispondere adeguatamente. Eni è da anni che utilizza i canali social in maniera intelligente. Anzi Eni ha sempre utilizzato egregiamente tutti i canali di comunicazione. C’è da dire moltissimo su questa storia, ma ci sono due aspetti che saltano all’occhio: 1) Il comunicato stampa non viene più utilizzato. D’altronde è da anni che i politici affidano a Twitter le proprie dichiarazioni. Certamente non è lo strumento più efficace per attività di reputazione digitale. 2) Nessun giornalista ha indagato sulle risposte date da Eni alle questioni portate a galla da Report. Insomma si limitano a fare la cronaca della scaramuccia, non entrando assolutamente nel merito.”

Massimo Chiriatti
Massimo Chiriatti

“Io temo invece che la presenza dei giornalisti nelle aziende, che notoriamente pagano bene e meglio delle redazioni oggi, vada ad attirare tutti i più showman, quelli che amano rappresentare se stessi, più che i fatti. Un po’ come quello che vediamo con i giudici e gli avvocati, sempre troppo sovraesposti.”

Alessio Biancalana
Alessio Biancalana

“A volte facendo il fact checking di quello che viene detto su Report si scoprono cose interessanti; io non so se quello che ha detto Report sia vero, se quello che ha detto Eni sia vero e cosí via, ma una cosa è sicura: un contraddittorio sul momento come quello che c’è stato ci voleva (come fenomeno di risposta, anche un po’ piccata, dati alcuni precedenti) e fornisce un sacco di spunti interessanti per parlare di second screen. (NdR: a tal proposito leggi anche il post di Gianluigi Riva aka Insopportabile)”

Barbara Sgarzi
Barbara Sgarzi
Giornalista

“Pochissimi giornalisti si siano concentrati sulla sostanza dei fatti e quasi nessuno ha tentato un fact checking in real time, o anche poco tempo dopo; il perché non lo so, posso azzardare che in real time nessuno fosse pronto, ma perché non lo abbiano fatto il giorno dopo sinceramente non so. Avrei apprezzato molto un fact checking che prendesse spunto da quello che è stato detto da Eni. Personalmente mi sarebbe servito molto, non avendo io le competenze per giudicare la veridicità. Eppure tutti si sono concentrati sulla modalità e non, appunto, sul contenuto.”

Pier Luca Santoro
Pier Luca Santoro

“Va detto che i giornali e i media italiani da tempo non fanno più fact checking. Il cane da guardia è diventato, da tempo immemorabile, un cane da compagnia assopito. Di fact checking in Italia si parla meno che altrove e, a parte i pochi siti “specializzati” (che però affiorano spesso solo in periodo elettorale, pour cause), in realtà non vedo nessuno che lo faccia davvero, e questo a prescindere da caso Eni.” Leggi anche il post di Pier Luca Santoro su DataMediaHub.

 

Andrea Iannuzzi
Andrea Iannuzzi
Giornalista de L’Espresso

“Non è così facile fare fact checking di una vicenda complessa che ha richiesto settimane di lavoro e parla di questioni molto tecniche. L’errore è stato – per me – mettere la risposta Eni sullo stesso piano dell’inchiesta di Report. Una è un’inchiesta giornalistica, l’altra una nota aziendale e vale quello che vale. La mia impressione è che averla messa su Twitter sia stata un’abile mossa per elevarla a contro-inchiesta, cosa che non è e non potrà mai essere. Il mezzo in questo caso si è mangiato il messaggio.”

Rosy Battaglia
Rosy Battaglia Giornalista

“Entrando nel merito, io penso che questa inchiesta di Report sia stata ineccepibile, e io stessa ho cercato di fare fact checking a qualche tweet di Eni sulla seconda parte della diretta, visto che Report non lo faceva. Sul fronte comunicazione, concordo che Twitter andava coperto per tempo dalla redazione di Report. I colleghi di Eni hanno fatto il loro lavoro. Il tweet con il carteggio della mancata intervista tra Eni e Report è arrivato dall’account di Report solo dopo l’una, e già al termine della trasmissione, quando si era già consacrato il grande successo comunicativo del gruppo petrolifero. Di tutta questa storia, la cosa grave, molto grave (NdR: da parte di Eni) è il negare la responsabilità dell’impatto ambientale e delle malformazioni neonatali dei bambini di GelaCi son due studi ISS e CNR di Pisa. In ogni caso, gli unici su Twitter che ho visto provare ad entrare nel merito sono stati Marco Nurra, Claudio Gatti, Andrea Zitelli ed Arianna Ciccone.”

Conclusioni:

Pierluigi Vitale
Pierluigi Vitale
Social Media Analyst

“Forse non siamo necessariamente di fronte a una svolta epocale, ma siamo sicuramente di fronte a un caso destinato a fare letteratura. Gli elementi di riflessione sono numerosi e molteplici, e di gran parte di questi si è già scritto e parlato. Molto interessante può essere andare a fondo del ruolo del giornalismo, che in questa dinamica ha vestito in egual misura i panni di oggetto e soggetto. Oggetto perché s’è registrato, a conti fatti, un tentativo di debunking verso un format che fa del debunking la propria essenza. È la comunicazione che “sfida” il giornalismo sul proprio terreno, insidiando il valore fondante della verità, stella polare di ogni notizia definibile tale. Soggetto perché, dati alla mano, l’evento che desta interesse di specialisti di comunicazione, informazione e opinione pubblica, ha registrato un numero di interazioni veramente esigue, di cui senza l’attività giornalistica online e offline forse non avremmo sentito parlare più di tanto. La battaglia epica che si sarebbe registrata su Twitter durante la messa in onda di Report ha in realtà i numeri di una rissa da cortile: meno di 5mila tweet in due ore di trasmissione. Siamo al polo opposto, con il giornalismo che valorizza una interessante dinamica di comunicazione senza avvalorarla della propria virtù naturale naturale, fatta di ricerca e racconto della verità, elemento senza la quale non esiste la notizia e si disgrega anche la comunicazione più arguta. Non è uno scontro che cerca vincitori, è una compenetrazione di ambiti di competenza, con la comunicazione che trova nell’attività giornalistica una prospettiva interessante e il giornalismo che coglie dalle dinamiche di comunicazione il vezzo meno nobile della fugace ed effimera (seppur redditizia) caccia al click.” Leggi anche il post di Pierluigi Vitale sul suo blog.

Luca Alagna
Luca Alagna
Consulente di comunicazione digitale

“Quello che penso è: si tratta di una crisi di comunicazione più di Report che di Eni, quest’ultima ha fatto un ottimo lavoro e va sottolineato adeguatamente, ha fatto quello che dovrebbe fare un’azienda oggi. Ora dovremmo interrogarci sulla crisi del giornalismo (mainstream) in Italia, però secondo me la soluzione non è conferire al giornalismo maggiore comunicazione. Secondo me è un problema più radicale per il nostro Paese, è un problema editoriale. Report ha usato il metodo giornalistico? Io ho l’impressione di sì. È possibile fare di meglio di quanto abbia fatto report dal punto di vista giornalistico? Io non credo, vedremo. Quindi ho l’impressione che il problema sia di altro tipo e io non penso che aggiungendo “comunicazione” possa essere risolto facilmente. Probabilmente questa vicenda ci mostra chiaramente un problema di identità dell’informazione in Italia, una crisi nella missione storica e nel rapporto con gli spettatori/lettori che non si risolve rapidamente con l’aggiornamento social/tecnologico come è successo altrove.”

Cinzia Bancone
Cinzia Bancone
Giornalista di TvTalk

“Il caso Eni Report ci dimostra come sia ormai il momento di dotarsi di social media manager. Le aziende stanno cominciando a farlo ma il paradosso è che i grandi broadcaster della comunicazione non si siano ancora attrezzati adeguatamente. Report, quella fatidica domenica, ha lanciato 35 tweet. Eni ne ha lanciati 32. I tweet di Report non sono entrati nel merito della social querelle. Questa volta tutto sommato ha vinto la TV considerato che gli utenti coinvolti su Twitter intorno a Report erano poco più di 2000 e i tweet generati poco più di 6000 (NdR: su questo aspetto va letta la riflessione di Giovanni Boccia Artieri sul suo blog), ma personalmente auspico che gli autori delle inchieste televisive si premurino di fare second screen la prossima volta. La reputazione si misura anche on line anche se per raggiungere l’opinione pubblica è ancora la carta stampata a farla da padrona. E in questo caso ha latitato, non si è esposta contro Eni, inserzionista di un certo calibro, in tempi di grave crisi dell’editoria.” Guarda anche il servizio di Amabile Stifano su TvTalk.

Antonio Pavolini
Antonio Pavolini
Business Analyst di Telecom Italia

“In sintesi: io credo che sia giusto confrontarsi su un tema che non ha nulla a che fare con le varie issue su cui Eni è normalmente esposta al rischio di crisi di comunicazione. e il tema è la novità del metodo: rispondere in tempo reale su Twitter a quello che veniva detto in una trasmissione televisiva è una novità per una grande azienda italiana. A distanza di quasi vent’anni dal Cluetrain Manifesto, siamo arrivati a una vera e propria conversazione in tempo reale, tra “peer”, quando per anni aziende come Eni compravano spazi grazie alla loro capacità di investire, e li occupavano, dato che o eri in quegli spazi o non potevi farti sentire, poteva funzionare. oggi è tutto diverso, chiunque – se ha una tesi documentata – ha lo spazio per esporla, e se riesce ad essere convincente, vince. In questo senso non penso che per Eni si possa parlare di “branded journalism”. Al massimo di “branded content”, che peraltro ha fatto un’ottima figura rispetto a Report proprio perché Report rappresenta una delle forma di degrado del nostro giornalismo. In sostanza, non avendo in Report un interlocutore autorevole, non è stato difficile far bella figura, semplicemente riportando una posizione aziendale ben documentata. Ma il giornalismo è una cosa ben diversa, sia da ciò che fa Report sia da ciò che fa Eni. Un giornalista non parte (come fa Eni e ahimé anche Report) da una tesi e poi costruisce un racconto per dimostrarla. Un giornalista raccoglie tutte le fonti e poi offre al lettore e al telespettatore gli strumenti per farsi una PROPRIA idea. Un giornalista può anche essere un opinionista, e quindi essere parziale (l’imparzialità del giornalista è una inutile chimera, che non va confusa con la correttezza), l’importante è che sia trasparente nel riportare e documentare tutti i fatti di cui viene a conoscenza, senza tesi precostituite, ecc. Ho sentito qualcuno dire che il giornalismo d’inchiesta deve essere anche d’assalto, come woodward ai tempi del watergate. Ma woodward proteggeva le sue fonti, le sue gole profonde, ciò che è ben diverso dal nascondere i microfoni o le telecamere. Ma forse questo è il giornalismo che l’Italia si merita. Non ho mai creduto a un possibile riscatto dei nostri mainstream media, e sono contento che sia una innovazione aziendale a rivelare tutta la loro inadeguatezza.” Guarda anche il video di “#thewhiteroom” sul dibattito online.

Matteo Flora
Matteo Flora

“La domanda principale credo che sia abbastanza banale: “Dove è finito il giornalismo italiano”? Dove è finita l’indagine, l’analisi, il servizio di approfondimento offerto al pubblico da una così nobile professione come quella del giornalista? Sappiamo da anni che i blog e la rete rispondono alle esigenze di informazione immediata e “veloce”, fortemente Oped, che l’utente vuole conoscere nell’immediato, e che sta al giornalismo l’approfondimento delle tematiche e la conferma o smentita dei fatti. Ma i giornali alla ricerca di click si concentrano o sull’informazione spicciola e a buon mercato, entrando di prepotenza nell’area dei blogger ma non portando con sé il bagaglio di esperienza che li contraddistingue, sempre alla ricerca del sensazionalismo a buon mercato e della gaffe o sparata del personaggio pubblico, che porta veloci e facili click. Il lavoro invece raffinato non paga altrettanto ed è bistrattato… Lo sa bene Eni e lo sapeva bene Kahneman quando vinse proprio su questi argomenti un Nobel: Kahneman conosceva infatti i meccanismi che Eni ha usato (e non solo Eni) e che prendono il nome di “framing”. Ed il framing consiste proprio nel creare un differente punto di vista che offra soddisfazioni minuscole immediate e danni a lungo termine invece della rovescia, poiché gli esseri umani sono sensibilissimi abba gratificazione a breve termine. E questo principio è diventato nel nostro campo, quello dei professionisti della Reputazione Digitale, quasi un a certezza matematica su cui contare: applicato alla comunicazione infatti il framing ti dice che tutta la stampa parlerà dell’azione più “notiziabile” e facile da narrare, ignorando il resto. parlerà delle feste, del siparietto divertente, delle gaffe, del gesto romantico o compassionevole, della capacità di comunicare meglio di Report. Tacendo, ovviamente, quanto vi è sotto perché non pronto e pre-digerito ma necessario di un lavoro ulteriore. Non nascondo che questo atteggiamento da parte della totalità degli organi informativi nazionali (salvo qualche saltuaria eccezione, che comunque appare solo come una “deviazione”) sia molto comoda per la mia professione, ma rimane il problema principale: dove è finita l’Informazione in Italia? Si è davvero trasformata al 100% in un palcoscenico di sensazioni pre-digerite proposte che danno l’interesse e l’emozione di un secondo o permane ancora qualcosa in più?” Leggi anche il post di Matteo Flora su CheFuturo!